Pianeta Cobar

LA RAPPRESENTANZA MILITARE.....PRIMA TAPPA: LE ORIGINI E L'EVOLUZIONE STORICA DELLA LEGISLAZIONE MILITARE.

Pubblicata il 22/03/2014

Prima tappa del viaggio nella dimensione della rappresentanza militare. Si parte dalle origini della legislazione militare e la sua evoluzione. Prima tappa dello studio sulla rappresentanza militare nel viaggio verso la riforma.
LA RAPPRESENTANZA MILITARE.....PRIMA TAPPA: LE ORIGINI E L'EVOLUZIONE STORICA DELLA LEGISLAZIONE MILITARE.

Spesso ci soffermiamo su assetti istituzionali e sul loro funzionamento osservandoli con un approccio settoriale che non ci consente di percepirne le sfumature, le ragioni storiche e, conseguentemente, di comprenderli a fondo. Pare, al riguardo, opportuno, prima di individuare possibili innovazioni, analizzare con attenzione gli istituti e le norme esistenti, individuarne le criticità e ponderare le implicazioni delle possibili modifiche, affinchè esse possano essere efficaci e durature. Anche la rappresentanza militare, nella sua struttura, con i punti di forza e le criticità, non può essere estrapolata dal contesto di fine anni ’70 in cui ebbe origine e dai significativi passaggi che hanno segnato innovazioni e correttivi contingenti. Ormai quotidianamente sentiamo richiamare, con crescente enfasi, la necessità di riformare la rappresentanza militare, talvolta in assenza di un chiaro obiettivo e, soprattutto, di priorità chiaramente delineate in un quadro di insieme. Lo scopo del presente lavoro è quello di proporre un approccio analitico, ripercorrendo, in primo luogo, la storia della legislazione militare fino all’approvazione della legge 11 luglio 1978, n. 382 avente ad oggetto “norme di principio sulla disciplina militare”, per poi analizzare le peculiarità della rappresentanza militare, soffermandosi sulle peculiarità da mantenere e sulle criticità da superare con un intervento di riforma.  Per una puntuale ricostruzione storica degli ordinamenti militari occorre partire dal primo Regolamento dell’Armata sarda del 1777, emanato il 1° luglio 1777 da Vittorio Emanuele III. Esso non costituisce una raccolta organica, in quanto reca sia norme sulla disciplina sia disposizioni per l’impiego operativo dei vari corpi e sulla gestione amministrativa degli stessi. Nel regolamento si trovano, forse per la prima volta, alcune norme di tutela del militare. Si tratta, tuttavia, di previsioni dettate non tanto da una consapevolezza della necessità di riconoscere alcuni diritti fondamentali ai militari, bensì dall’obiettivo di evitare che il ricorso ad una disciplina troppo rigorosa potesse indebolire l’Esercito ed incrementare le diserzioni. Come è comprensibile, si trattava di un contesto in cui la disciplina e l’obbedienza costituivano principi assolutamente prioritari e irrinunciabili e, oltre a minori disobbedienze, anche mancanze di rispetto e “gesti indolenti” erano considerati crimini. Ai superiori era attribuita un’ampia discrezionalità nell’applicazione delle sanzioni mentre il diritto di proporre un reclamo da parte dell’inferiore, benché in linea di principio riconosciuto, in realtà era scoraggiato dalla stessa norma che lo ammetteva. Il quadro riportato subì modifiche momentanee soltanto con lo scoppio della rivoluzione francese. In quel periodo si affermò il principio dell’Esercito fondato sulla leva obbligatoria e fu annessa importanza al trattamento dei soldati con umanità, con possibilità di infliggere loro punizioni conformi alla legge, secondo quanto previsto dall’articolo 1 del Regolamento emanato con legge 14-15 settembre 1791. La situazione fece registrare un sostanziale ritorno alla disciplina del 1777 con l’emanazione del Regolamento del 1° settembre 1814 da parte di Vittorio Emanuele I. Benché questo prevedesse che la severità della disciplina fosse accompagnata dall’umanità e dalla dolcezza, in realtà non recava alcuna novità in tema di punizioni, che rimanevano del tutto discrezionali (non erano determinate né per la loro durata né per le procedure di irrogazione), e di reclami. Una svolta significativa e radicale si ebbe nel 1822 con l’emanazione, da parte di Carlo Felice, del “Regio Editto penale militare”, che introdusse la distinzione tra azione penale e azione disciplinare, fino ad allora esercitate dal comandante di un certo livello. Nel medesimo anno fu emanato il Regolamento di disciplina militare per la fanteria, con il quale veniva definita la separazione tra azione penale e disciplinare e le relative competenze, atte ad eliminare l’arbitrio nell’irrogazione delle sanzioni disciplinari e penali. Alcuni correttivi furono poi introdotti con il codice penale del Re di Sardegna nel 1840 e con il nuovo regolamento di fanteria dello stesso anno, fondati sui principi dello Stato assoluto in cui la religione era al centro dei doveri propri del militare che doveva essere orientato alla fedeltà al sovrano. Il riverbero di tale ispirazione era costituito dal giuramento dei militari innanzi all’altare. L’obbligo incondizionato di obbedienza dell’inferiore veniva riferito espressamente, nel 1840, al servizio, al buon ordine e al buon costume. Rimaneva per altro verso inalterata la disciplina dei reclami, che qualificava il reclamo collettivo come grave mancanza contro la subordinazione. Le sanzioni disciplinari dei sottufficiali e della truppa erano distinte da quelle degli  ufficiali. L’intero sistema antecedente all’emanazione dello Statuto Albertino non recava alcuna disposizione atta a garantire l’esercizio dei diritti civili. Ancorché il Regolamento del 1859 non recasse molte differenze rispetto al testo del 1840, esso introduceva nuove norme in materia di libertà di religione e libertà di manifestazione del pensiero. Al riguardo, permanevano una serie di divieti, tra cui quello del dovere di riserbo e di non rivolgere critiche all’azione di comando del superiore e quello di rilasciare, in assenza di autorizzazione del superiore, attestati o dichiarazioni per fatti o condotta di altri militari. Rimaneva altresì inalterato l’impianto delle disposizioni in materia di obbedienza (pronta, rispettosa e assoluta nelle cose di servizio e in tutto ciò che appartiene all’autorità), diritto di manifestazione del pensiero (possibilità di formulare osservazioni soltanto su richiesta del superiore) e punizione del reclamo collettivo. Residuava anche una profonda differenza tra le sanzioni irrogabili agli ufficiali (più gravi) e quelle previste nei confronti dei soldati. Il Regolamento del 1859 si poneva in linea di continuità rispetto ai due precedenti come dimostra la conservazione del dovere di vigilanza del superiore nei confronti dell’inferiore anche fuori dal servizio. Nel 1872 veniva emanato il Regolamento di disciplina militare, per la prima volta con valenza generale per tutte le Forze armate. Da esso non si discostarono i due regolamenti successivi del 1907 e del 1929 (pressoché identici). Nel Regolamento del 1872 era fortemente ridimensionato il ruolo della religione. È interessante notare che per ciò che attiene il rapporto tra militari e attività politiche il regolamento del 1872 e quello del 1907 consideravano “grave colpa” la partecipazione a manifestazioni politiche, mentre il Regolamento del 1929 precisava che il militare “deve astenersi da qualunque dimostrazione a scopo politico e da altre pubbliche manifestazioni che, sebbene consentite dalla legge, non sono compatibili con il carattere militare”Sul piano generale i regolamenti del 1872, del 1907 e del 1929 mantenevano significative analogie. In particolare, permaneva una concezione dell’istituzione militare come ordinamento autonomo e originario rispetto a quello statale. Nulla di sostanzialmente nuovo appare neanche nella definizione dei tre concetti di  subordinazione, disciplina e obbedienza che permanevano i cardini di tutta l’organizzazione militare. Gli ultimi due regolamenti apportavano modifiche al concetto di subordinazione, eliminando dalla norma il riferimento ai diritti conseguenti al rapporto gerarchico e configurandola, a partire dal regolamento del 1907, come rapporto personale, con un arretramento della disciplina militare. L’obbedienza, in conseguenza della posizione di quasi totale e completa subordinazione, doveva essere pronta, rispettosa e assoluta e non era consentita alcuna osservazione. Anche in materia di reclami non venivano introdotte innovazioni e le disposizioni tendevano a scoraggiarli piuttosto che a consentirli. Nessuna evoluzione in termini di garanzie si rileva nel settore della disciplina dal 1872 al 1929.  L’unica concreta evoluzione era costituita dalla scomparsa, per i militari di truppa, delle sanzioni corporali e di quelle dei ferri, fatti salvi casi eccezionali. Il quadro mutò significativamente con l’entrata in vigore della Costituzione, i cui principi non consentivano più di mantenere una disciplina militare ispirata a principi non riscontrabili nella realtà civile. Le Forze armate furono così inserite nel processo di svolta democratica dell’organizzazione dello Stato. L’organizzazione militare non si poteva più modellare nel modo ritenuto più opportuno, come in precedenza. La collocazione del sistema organizzativo delle Forze armate come separato ed autonomo poggiava su categorie interpretative giustificabili nell’ambito di un quadro normativo non più esistente, fortemente ancorato a radici di natura politica piuttosto che di carattere giuridico. La valenza delle Forze armate come articolazione armata dello Stato ha permesso il mantenimento per lungo tempo di soluzioni organizzative passate. Infatti, il Regolamento di disciplina emanato nel 1929, nel periodo fascista, è rimasto in vigore fino al 1964 con alcuni correttivi minimali che riguardavano soltanto l’eliminazione dei riferimenti alla monarchia e alle istituzioni del periodo fascista. Anche dopo l’entrata in vigore del nuovo regolamento del 1964 rimanevano sostanzialmente inalterate le regole della disciplina militare ispirate a principi precedenti a quelli dell’epoca repubblicana. Il Regolamento di disciplina militare veniva approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 31 ottobre 1964; il mantenimento dello strumento regolamentare per disciplinare l’ordinamento delle Forze armate rimaneva una scelta singolare da parte dello Stato, seguita soltanto dal Belgio tra gli Stati occidentali, mentre gli altri avevano prescelto la legge come fonte per porre i principi di base dell’ordinamento militare, ove il regolamento assumeva una posizione esclusivamente complementare ad essa. La scelta del regolamento, ricondotto da parte della dottrina nell’ambito dei regolamenti indipendenti, cioè fondato su leggi che attribuiscono alla pubblica amministrazione competenza in una materia senza regolarne i casi e i modi di esercizio, ha ricevuto varie critiche. Quanto alla fonte, è stato rilevato che il regolamento del 1964, che dava attuazione all’articolo 38 del codice penale militare di pace, è stato emanato dal Ministro della difesa, previa acquisizione del parere del Consiglio Superiore delle Forze armate, senza previa acquisizione del parere del Consiglio di Stato, senza approvazione successiva del Consiglio dei Ministri e senza essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, qualificandosi, pertanto, più come un “atto di autoregolamentazione delle Forze armate” che come regolamento indipendente. Furono, pertanto, avanzati dubbi in ordine alla legittimità costituzionale del Regolamento del 1964, ancorché i rilievi specifici non furono mai rimessi al vaglio della Corte CostituzionaleI principi fondamentali mutuati dal Regolamento del 1964 furono quelli della gerarchia e dell’obbedienza. La gerarchia aveva una portata diversa da quella propria dell’ordinamento civile, nel quale il focus era posto sul rapporto tra gli uffici; nel mondo militare la gerarchia faceva riferimento al rapporto tra uomini militari, in base al grado. Il dovere di obbedienza era assoluto e trovava il suo limite nella legge penale. La relativa trasgressione era perseguibile non solo in via disciplinare ma anche in sede penale, ai sensi dell’articolo 173 del codice penale militare di pace. Sulla questione si innesta la delicata questione dei limiti del sindacato del militare. Il sindacato sul contenuto dell’atto che legittimava la non obbedienza poteva avere luogo solo quando l’ordine si realizzava in un comportamento integrante gli estremi di un reato e non in un atto illegittimo. La giurisprudenza ha attenuato tale principio affermando l’insussistenza della trasgressione della norma nel caso di mancata esecuzione di un ordine contrario alle norme regolamentari e perciò non attinenti al servizio e alla disciplinaUna delle maggiori critiche rivolte al Regolamento del 1964 riguardava l’approccio, ritenuto “conservatore”, alla disciplina dei diritti civili e politici riconosciuti ai cittadini alle armi e all’architettura del sistema dei reclami e delle sanzioni. L’incidenza nella sfera della vita privata era molto ampia e caratterizzata da aspetti significativi, come ad esempio la disciplina sull’uso dell’abito civile e altri risvolti relativi alla vita privata, quale quello del matrimonio e dei criteri per la scelta della moglie. Quanto all’esercizio dei diritti occorre soffermarsi sulla disciplina in materia di libertà di associazione e libertà di manifestazione del pensiero. Gli articoli 6 e 46  del Regolamento vietavano al militare non solo di appartenere ad associazioni di cui l’attività e la composizione o i nomi degli associati fossero in tutto o in parte segreti, ma anche di far parte di associazioni “i cui fini e la cui attività non siano compatibili con gli obblighi del giuramento prestato o possano costituire ostacolo alla rigorosa osservanza della disciplina”. Inoltre, il successivo articolo 47 prevedeva il divieto per il militare, fuori dal servizio, di svolgere attività aventi carattere politico, che si potevano concretizzare anche nella partecipazione o nell’intervento in manifestazioni, dibattiti, conferenze su argomenti di interesse per la collettività. Ulteriore limite all’esercizio dei diritti da parte del militare era costituito dal divieto di qualsiasi forma di critica nei confronti del superiore come anche tutte quelle espressioni lesive del buon nome del Corpo. Quanto poi alle dichiarazioni rese all’esterno dell’istituzione militare, il Regolamento vietava di divulgare fuori dall’ambiente militare notizie da ritenersi comunque attinenti al servizio. Furono comunque gli articoli 17, 23 e 38 a porre più specifiche limitazioni al diritto di libera manifestazione del pensiero, vietando comportamenti atti a ledere lo spirito di corpo e tutti gli apprezzamenti e i giudizi suscettibili di essere interpretati come contrari alla disciplina e all’onore militare. Era altresì vietata ogni considerazione che avrebbe potuto affievolire, anche indirettamente, l’autorità del superiore o ledere in qualunque modo la sua considerazione. Parte della dottrina aveva considerato tali limitazioni molto forti e suscettibili di ridurre il diritto di libera manifestazione del pensiero in limiti talmente ristretti da essere considerati quasi inesistenti, soprattutto in ragione dell’assoluta discrezionalità nella valutazione attribuita all’autorità militare.  Ulteriori e più consistenti dubbi di legittimità sono stati avanzati in ordine alla insussistenza di effettive garanzie per il militare nel settore della disciplina. La mancanza di norme idonee a tutelare il militare nella fase precedente all’irrogazione della sanzione disciplinare ha posto l’inferiore, se non all’arbitrio del superiore, alla sua completa discrezione nella valutazione dei fatti. Al riguardo, infatti, l’unica garanzia era quella secondo cui nessuna sanzione poteva essere irrogata senza acquisire e vagliare le giustificazioni del manchevole. I dubbi di legittimità del sistema sanzionatorio stabilito dal Regolamento del 1964 investivano anche l’articolazione delle sanzioni stesse, sottendendo dubbi in ordine alla rispondenza al principio affermato dall’articolo 3 della Costituzione, in quanto le sanzioni venivano diversificate esclusivamente in funzione del grado.  Critiche più marcate sono state appuntate sulla disciplina del reclamo, che il Regolamento del 1964 tendeva a scoraggiare. La regola fondamentale era quella secondo cui il militare che assumeva violati i propri diritti aveva facoltà di presentare reclamo nei confronti di un superiore, ma se il reclamo si riferiva a un ordine ovvero a una punizione esso poteva essere presentato soltanto dopo l’esecuzione dell’ordine o al termine della punizione, applicando il principio del solve et repete, peraltro già censurato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 61 del 1961, in materia patrimoniale che esponeva interessi significativi ma di rango inferiore rispetto a quelli in esame. Ulteriore penalizzazione del diritto si sostanziava nella previsione secondo la quale costituiva mancanza disciplinare la presentazione di reclami formulati in maniera sconveniente oppure manifestamente infondati.   Il quadro esposto rende comprensibile la spinta verso interventi di riforma dell’intero sistema, richiesti dai movimenti democratici nati all’interno delle Forze armate e da componenti politiche. Nel 1975 il Ministro Forlani presentò alle Commissioni parlamentari Difesa, per un parere preventivo, una bozza di regolamento. La scelta costituiva un compromesso che teneva conto dell’esigenza di avviare il testo di riforma ad un dibattito pubblico prima di procedere all’emanazione. Permanevano, tuttavia, le criticità già diffusamente esaminate in precedenza con riferimento allo strumento regolamentare e ai connessi profili di incertezza e di ritenuta illegittimità. Il vivace dibattito che ne seguì e le forti critiche mosse all’iniziativa indussero a ritirare il testo. Successivamente fu scelta un’altra via che prevedeva un intervento di riforma in due momenti successivi: approvazione di una legge sui principi generali della disciplina militare per definire le linee generali e i principi cui avrebbero dovuto uniformarsi le Forze armate (soluzione che avrebbe consentito di realizzare l’intervento di riforma attraverso un confronto ampio in sede parlamentare) e, in un momento successivo, emanazione di un regolamento applicativo della legge recante procedure e altre disposizioni necessarie per l’attuazione della stessa. L’intervento distinto sui due livelli legge - regolamento corrispondeva alla prassi amministrativa italiana. L’adeguamento dei codici e dei regolamenti alla Costituzione teneva conto dell’esigenza di contemperare l’esigenza di mantenere le Forze armate efficienti e di assicurare al cittadino - militare i diritti fondamentali, ancorché con talune necessarie limitazioni. Un rapporto positivo e non di contrapposizione tra Forze armate e paese, come già evidenziato dall’esperienza degli Stati Uniti, era da considerare come una condizione necessaria per l’efficienza delle stesse. Fu proprio in questo contesto che ebbe luogo l’approvazione della legge 11 luglio 1978, n. 382 “Norme di principio sulla disciplina militare”.

 
 
     ( 1a tappa nello studio della Rappresentanza Militare. Pianetacobar.eu  in viaggio verso la Riforma della Rappresentanza Militare )

Fonte: pianetacobar.eu/ LA RAPPRESENTANZA MILITARE/ Asp Romeo Vincenzo

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